Presentato oggi da Greenpeace,
Legambiente, LIPU e WWF Italia il ricorso contro la costruzione della centrale
a carbone di Saline Joniche, autorizzata dalla presidenza del Consiglio dei
Ministri
In Italia si fermino le lobby del
carbone, a partire da Saline Joniche fino Porto Tolle e Vado Ligure, e si
elimini la quota del 13% di carbone dalla Strategia Energetica Nazionale
“Lo stop al carbone in Italia cominci da Saline Joniche
insieme con l’assunzione di una seria politica ‘taglia-emissioni’ in grado di
rispondere all’emergenza climatica, al centro del dibattito della COP18, il vertice internazionale sul Clima
in corso a Doha, in Qatar, fino al 7 dicembre”. È questo il messaggio che Greenpeace, Legambiente, LIPU e WWF
hanno lanciato oggi durante la conferenza stampa di presentazione del ricorso
che si oppone alla decisione della
Presidenza del Consiglio dei Ministri (DPCM) di autorizzare la costruzione
di una nuova centrale a carbone presso Saline Joniche (RC) da parte del
consorzio S.E.I., capeggiato dalla società svizzera Repower. Alla conferenza
stampa hanno partecipato anche Slow Food
Italia e un portavoce della rete
grigionese contro il carbone.
“Fermare la costruzione della centrale a
carbone di Saline Joniche, in Calabria – dichiarano le associazioni
ambientaliste in una nota congiunta - è un primo passo, fondamentale per
bloccare l’avanzata lungo tutto lo stivale delle lobby del carbone e di una
politica energetica vecchia, inutile e dannosa per il clima e la salute ma che
tuttora persiste, con una quota di circa il 13% , nella Strategia Energetica
Nazionale in fase di pubblica consultazione”.
IL RICORSO. L’autorizzazione alla costruzione di questa centrale
è stata concessa dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) calpestando,
con una evidente forzatura, la volontà istituzionale e sociale dei territori
interessati, e a dispetto di svariate controindicazioni. Prima tra queste
l’aver bypassato il Piano Energetico
della Regione Calabria (che a sua volta ha presentato un ricorso motivato) che vieta espressamente la costruzione di centrali a carbone sul proprio territorio e
punta decisamente sul mix fatto di rinnovabili ed efficienza energetica. E'
questa la scelta ritenuta a giusta ragione in grado di preservare e valorizzare
anche le potenzialità e le eccellenze ambientali, naturalistiche e culturali
dell’area interessata, dalla valenza
turistica alle fiorenti piantagioni di bergamotto, testimonial di biodiversità
e risorsa economica, apprezzato in tutto
il mondo. In questo senso, l’autorizzazione accordata dal DPCM suona come
un’arrogante e coloniale ingerenza nei
confronti di una regione che con coerenza e lungimiranza, prima di altre e
prima del Governo nazionale, vede nella
sostenibilità e nell’economia a basse emissioni di CO2 un motore per
il proprio sviluppo a medio-lungo termine, e vanifica anche i progetti
concreti che si stanno indirizzando in questa
nuova direzione.
La stessa Repower ha recentemente ammesso che non costruirebbe mai una centrale come quella di Saline Joniche in
Svizzera. Dovrebbero però spiegare perché la stessa centrale, che a pieno
regime emetterebbe ben 7,5 milioni di
tonnellate di CO2 l’anno (per non parlare delle altre sostanze
pericolose per la salute umana), dovrebbe essere tollerata dai calabresi. . E'
una domanda che anche nel Canton dei Grigioni, pongono movimenti, partiti e
associazioni che condannano nettamente l’investimento di Repower in Calabria e
chiedono, anche attraverso un referendum e la proposta di un “premio-vergogna”,
di rivedere tale decisione. Tra l’altro il progetto fa riferimento ad una
tecnologia, quella della cattura e confinamento geologico della CO2,
allo stato attuale e nel futuro più prossimo, impraticabile, in quanto ancora
in via di sperimentazione, non matura e
insostenibile economicamente, comunque non applicabile in zone sismiche
come Saline Ioniche.
Va anche considerato
che, se costruita, la centrale a carbone di Saline Joniche stravolgerebbe l’ecosistema marino e terrestre dell’Area Grecanica e
della Costa Viola, minaccerebbe ben
18 aree vincolate (secondo il Ministero dei Beni Culturali), di cui ben 5 Siti
di Importanza Comunitaria, in pieno contrasto con la direttiva europea
Habitat. Basterebbe considerare il trasporto dell’elettricità prodotta
attraverso un elettrodotto ritenuto fortemente impattante sul paesaggio reggino
dallo stesso Ministero dei Beni Culturali.
Non ultimo, minaccerebbe gravemente la salute delle
popolazioni locali: una stima dei danni basata sulla metodologia della
European Environmental Agency (EEA) mostra come la centrale a pieno regime
causerebbe in un anno 44 morti
premature, 101 milioni di € di costi sanitari, 500.000 € di danni
all’agricoltura a ben 250 milioni di € causati dalle ingenti emissioni di CO2.
Infine, come se questo
non bastasse, ci si chiede a cosa serva la costruzione di una nuova centrale,
visto che a fronte di una richiesta
energetica storica massima di 56.822 MW (avvenuta nel 2007), l’Italia già
dispone di una potenza installata che supera i 118.443 MW, una
sovraccapacità produttiva che costringe gli impianti a funzionare a scartamento
ridotto con gravi conseguenze economiche per il Paese e per le stesse bollate
dei cittadini. Un dato è certo: la centrale non serve certo ai calabresi, né
tantomeno per assicurare la sicurezza energetica del nostro Paese; garantisce
solo forti utili all’azienda e solo maggiori costi per la collettività.
IL
CARBONE IN ITALIA. Ci si chiede, in questi giorni in cui è in fase di pubblica consultazione la Strategia Energetica
Nazionale (SEN), quale sia il modello di sviluppo energetico che l’Italia
vuole perseguire. Quello vecchio, pericoloso e senza futuro del carbone o
quello lungimirante e sostenibile fatto di un mix equilibrato di rinnovabili,
efficienza e risparmio energetico? Stando ai fatti, sembrerebbe il primo; oggi in Italia il 12,9% dell’energia
elettrica è prodotto da carbone, che causa però oltre il 30% delle emissioni
totali di CO2. Queste percentuali potrebbero aumentare se tutti
i progetti in fase di autorizzazione andranno a buon fine. Saline Joniche è solo una parte del “fronte del carbone”. Altri punti caldi sono Porto Tolle
(progetto di riconversione da olio combustibile in pieno Parco Delta del Po), Vado Ligure (progetto di ampliamento
della centrale a carbone esistente, a dispetto di evidenze di pesante
inquinamento dell’ecosistema locale con impatti sanitari devastanti), Sulcis (è recente la notizia
dell’apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia per aiuti di stato
a Carbosulcis, a testimonianza dell’insostenibilità anche economica
dell’impresa).
Greenpeace,
Legambiente, LIPU e WWF chiedono espressamente che dalla SEN venga eliminata la
quota di carbone prevista e dirottata in favore di fonti di energia pulita e più
efficienti.
OLTRE
L’ITALIA: L’EMERGENZA CLIMATICA SUL TAVOLO DI DOHA. L’emergenza
climatica, che abbiamo visto di recente in azione sia in Italia con la nuova
ondata di alluvioni che nel resto del mondo con eventi disastrosi come
l’uragano Sandy, è in questi giorni al centro della COP 18, la Conferenza ONU sui
Cambiamenti Climatici, iniziata ieri a Doha e in corso fino al prossimo 7
dicembre. E’ pertanto fondamentale per l’interesse stesso della sopravvivenza
umana, oltre che per la salvaguardia ambientale, che dal tavolo di Doha
emergano impegni vincolanti per gli Stati con delle scadenze ben precise
sull’adozione di tutte le misure e gli strumenti necessari alla riduzione delle
emissioni inquinanti. Più precisamente, tra i temi esaminati nel vertice di
Doha ci sono: il secondo periodo di
impegni del Protocollo di Kyoto, per i Paesi industrializzati,,
trasformando le indicazioni dei Governi in veri e propri target di riduzione. Un impegno a cui non possono sottrarsi i
Paesi in Via di Sviluppo, considerando però che ciò avvenga attraverso una distribuzione equa degli sforzi tra
Paesi sviluppati, responsabili per primi della concentrazione attuale dei gas
serra in atmosfera e quindi riscaldamento globale, e Paesi in Via di Sviluppo
che devono coniugare il diritto al benessere e allo sviluppo con la necessità
di limitare e ridurre i gas serra e l’aumento medio della temperatura globale.
Altro scoglio è quello della finanza, laddove è necessario arrivare
a nuove fonti di risorse, soprattutto per venire incontro ai paesi più
vulnerabili e meno sviluppati. E altre risorse finanziarie saranno necessarie
per limitare la deforestazione,
causa di una grossa fetta di emissioni e distruttiva dei bacini essenziali per
assorbire carbonio.
Roma, 27 novembre 2012
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